Anita Guadagnin. Presentazione Mostra "Largo Corona" 9 novembre 2019 Bassano del Grappa |
PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA “6 DEL LABORATORIO DELLE ARTI” Largo Corona 9 Novembre 2019 Questa che si apre allo “Spazio Corona” è una mostra che vuole raccogliere e celebrare le esperienze di artisti che, in diverse maniere e momenti, hanno avuto contatto con l’associazione culturale che dà appunto nome a questa esposizione, il Laboratorio delle Arti. In un panorama culturale da sempre molto fecondo e vivace come quello della nostra città, questo gruppo di artisti qui in mostra è una delle possibili sintesi di un ben più ampio e complesso percorso espressivo e culturale che, negli anni ’80, fece capolino a Bassano con la sua carica innovativa e la sua volontà di dialogare e far dialogare artisti, critici, cultori dell’arte, semplici cittadini sullo stato dell’arte nelle sue diverse forme, manifestazioni, tendenze e sulle sue prospettive future, che i membri dell’associazione, negli anni successivi, hanno poi percorso e materializzato, in un continuo scambio e confronto con la comunità locale ed oltre i suoi confini. Ecco perché è importante che Bassano dia risalto alla storia di questo gruppo e agli esiti artistici di alcune delle personalità che ne hanno fatto parte o che di esso hanno condiviso e condividono lo spirito. Fondato dunque nell’ormai lontano 1980, il Laboratorio delle Arti sorse per la felice e congiunta intuizione del maestro Angelo Sartor e del compianto Pietro Giuseppe Borsato: i due pittori intendevano affiancarsi al già allora da anni attivo Circolo Artistico Bassanese, sorto nel 1951 e che annoverava fra i suoi membri Danilo Andreose (per lungo tempo il presidente), Vito Pavan (suo successore), Bruno Breggion, Gino Pistorello, Oscar Fedetto, Andreino Remonato, Toni Fabris, Rino Furlan, Ennio Verenini, Giuseppe Fantinato, Umberto Ilfiore, Sergio Schirato e Natalino Andolfatto. Sartor e Borsato volevano trovare sulla scena artistica bassanese uno spazio ulteriore in grado di esprimere le nuove tendenze artistiche emergenti fra gli anni Settanta e gli incipienti anni Ottanta e costituire una voce aperta, fresca ed alternativa nel panorama artistico locale. Presto si aggiunsero ai fondatori anche altre personalità come Giuseppe Zampese, da poco venuto purtroppo a mancare, accanto ai più giovani Tristato Casarotto e Gabriele Bordignon. Realismo in chiave contemporanea, Espressionismi, surrealismi, confronto e passaggio dal realismo all’astratto, l’attenzione anche all’installazione, alle manifestazioni di avanguardia e transavanguardia, senza scordare l’importanza di tecniche che hanno fatto la storia e costituiscono il volto artistico del nostro territorio: l’olio su tela, la ceramica, l’affresco. Tutto questo alimentava la vita e il fermento dell’associazione “Laboratorio delle Arti” sin dai primi anni della sua attività. Nelle riunioni del gruppo, a cui continuarono col tempo ad associarsi ed avvicinarsi molti altri artisti e che si tenevano in un piccolo edificio industriale nei pressi di via Passalacqua, si condividevano idee, si organizzavano eventi, si allestivano nel territorio ex – tempore, manifestazioni e si partecipava a concorsi artistici locali e nazionali. Questo fermento accompagnò il gruppo per tutti gli anni Ottanta, raggiungendo probabilmente la sua migliore sintesi con la grande esposizione collettiva “Dif-fusione arti visive”, tenutasi nel 1988 negli eleganti ambienti del cittadino Palazzo Bonaguro. Negli anni a seguire l’attività del gruppo continuò e i suoi componenti, pur mantenendo i contatti fra di loro, svilupparono autonomamente tematiche, tecniche e linguaggi, che ora troveranno nuovo risalto nella mostra collettiva in programma in queste sale. Se quindi questi sei artisti possono trovare un punto comune nell’affiliazione o nella vicinanza programmatica all’associazione del “Laboratorio”, il loro percorso umano ed artistico ne fa esperienze del tutto peculiari e originali, gli uni dagli altri, e proprio questa loro diversità vale la pena sia, qui ed ora, evidenziata e analizzata. Le opere che il fondatore del Laboratorio Angelo Sartor ha qui voluto esporre vogliono testimoniare parte di un viaggio personale ed artistico intenso, profondo, che non ha mai ceduto alle mode temporanee, ma che anzi, con coraggio e coerenza, ha battuto sentieri sempre nuovi, con esiti di grande effetto e schietta originalità. Quello che affascina è proprio l’attitudine a sperimentare, di cui Sartor ha dato prova già parecchi anni orsono, con l’utilizzo dell’aerografo, della stesura a spruzzo e della tecnica dello sgocciolamento. Queste modalità esecutive gli hanno permesso da una parte di aprire il soggetto realistico anche all’investigazione psicologica, al sondaggio e alla manifestazione delle emozioni e delle sensazioni proprie e dell’osservatore; dall’altra di operare quel passaggio – che non tutti gli artisti riescono a realizzare – dalla raffigurazione di un semplice luogo ed ambiente alla materializzazione di un’atmosfera, capace di evocare risonanze visive, tattili, uditive. Di fronte ai quadri di Sartor, infatti, lo spettatore si sente quasi parte, avvolto in una esperienza multisensoriale, sembra quasi poter percepire le fibre vegetali di una superficie erbosa, le venature delle foglie dei suoi alberi, la scabrosità della roccia delle sue montagne. Forse anche per questo la sua ricerca, negli ultimi anni, si è volta alla sperimentazione della pittura su diversi supporti, concentrandosi più recentemente su superfici metalliche in grado di rendere atmosfere sempre più metafisiche e soffuse, anche grazie alla sua così personale modalità di stesura dei colori e soprattutto all’uso dello sbalzo, il quale delinea forme che i grandi fogli di alluminio hanno magari involontariamente appena suggerito e che ben si coniuga poi all’intervento del colore. Si crea così un fortunato connubio di tecniche pittorico – scultoree che conferiscono alle opere di Sartor un’espressività compiuta, matura, ma mai violenta: a stemperare la rugosità, le asprezze del supporto pittorico interviene una luminosità pacata, pulviscolare, che fonde con delicata sintesi materia e colore. In questa esposizione non può mancare anche la sensibilità femminile, quella di Alessandra Zaltron, che in questi spazi ci permette di ammirare come la sua costante curiosità verso la natura nelle sue multiformi manifestazioni e l’impellente desiderio di esprimersi con l’arte che da sempre l’accompagna si siano materializzati in una varietà di soggetti, anche apparentemente distanti fra di loro, che hanno però, in comune, l’esigenza di comunicare sentimenti intimi ma anche contenuti e messaggi pienamente universali. Anche quando, soprattutto nella prima fase della produzione, Alessandra Zaltron si è cimentata nel ritratto, tema mai del tutto abbandonato e in cui nel corso del tempo è arrivata ad esprimere una piena maturità tecnica ed espressiva, l’artista è riuscita a compiere una equilibrata unione fra rappresentazione del reale ed evocazione del mondo interiore proprio e del soggetto rappresentato. Colpisce poi l’abilità di accompagnare alla figura umana un fondo che la valorizza, ma allo stesso tempo si distingue per una resa impeccabile, dato da perfette scelte cromatiche e pennellate fluide ed eleganti. Quella di Alessandra è una vera vocazione al ritratto come mezzo per trasmettere le vibrazioni dell’animo umano ma anche per testimoniare il fluire del tempo e la sua manifestazione nella fisiognomica del volto, delle pose, delle espressioni, degli sguardi. La predisposizione a far emergere emozioni, pensieri e riflessioni ha trovato una compiuta epifania anche nelle sue opere astratte, che costituiscono chiaro esempio di pittura dell’inconscio: attraverso il libero fluire e scorrere sul supporto di acrilici e stucchi, l’artista libera la propria energia interiore e lascia che sia il colore a suggerire forme e le forme ad evocare contenuti e soggetti. Ed è stato proprio in un fluire ciclico delle sue esperienze artistiche che il figurativo ha finito negli ultimi tempi per riemergere dai suoi quadri, con una forza nuova e originalmente espressiva, come se l’opera sentisse l’esigenza di farsi messaggera visiva, accorata, di una riflessione quanto mai attuale: lo testimoniamo i suoi ultimi lavori dedicati al mare, ai suoi fondali, alle sue creature animali e vegetali, che l’irrispettosa impronta dell’uomo rischia di seppellire sotto cumuli di plastica distruggendo per sempre il preziosissimo patrimonio della biodiversità. E la sincerità del monito di Alessandra ad un maggior rispetto della natura trova ancora più forza nella vivacità dei cromatismi e nella novità degli inserti polimaterici, a testimoniare un cammino artistico in continua e vivace evoluzione. Sempre la pittura è la tecnica espressiva di Walesky, nome con cui da tutti è conosciuto Giannantonio Negrello, per molti anni stimato professionista nel campo della fotografia, ma fin dalla giovinezza fortemente interessato al mondo dell’arte e in particolare, appunto, alla pittura. Sembra quasi un ossimoro che un maestro della rappresentazione su pellicola – e poi tramite pixel – della realtà, manifesti una spiccata predilezione per la trasfigurazione pittorica del mondo presente fuori e dentro di noi. Eppure forse solo chi la realtà l’ha conosciuta bene tanto da immortalarla ed esaltarla quotidianamente quale essa è– anche se pure le sue fotografie risentono molto delle sue riflessioni sull’arte - finisce per sentire così forte, ad un certo punto, l’esigenza di superare il visibile, il tangibile, e virare verso la libera navigazione nel mare dei propri stati d’animo, nelle distese dei propri pensieri e nelle personali interpretazioni della vita che ci circonda e ci anima. Della pittura di Walesky mi ha colpito in particolare il ruolo del colore, che non è solo veicolo e flusso di sensazioni, ma che ha una funzione quasi rabdomantica: infatti permette poi all’artista di cogliere, riconoscere ed esaltare le forme a cui, quasi inconsciamente ha dato vita, per darci un senso e generare poi altre forme, altri accostamenti di colore, in modo da pervenire ad un risultato di apprezzabile equilibro compositivo. Sempre con il colore Walesky gioca a creare composizioni ora molto vivaci, gioiosamente caotiche, ora più pacate (quando per esempio usa i bruni e le terre, accompagnate da qualche guizzo di bianco, dai rossi e dagli arancioni); sempre con semplici mezzi formali, in altri lavori, mira ad evocare, in un’atmosfera sospesa ed atemporale, paesaggi e volti, reali o inventati, la cui bellezza è insita proprio nella loro essenzialità. In una mostra ospitata fra le antiche mura di Bassano l’omaggio forse più in sintonia con una città che in passato venne definita a buon ragione “urbs picta” viene dalle mani di Tristano Casarotto, che con i suoi affreschi da molti anni ha fatto conoscere in Italia e ben oltre i suoi confini non solo le sue opere ma le suggestioni di un patrimonio culturale e paesaggistico, quello bassanese, che con malcelato orgoglio posso dire abbia pochi eguali, per la sua forza e, al contempo, la sua dolcezza. Con Casarotto, che molte volte si è cimentato con successo nella pittura su grandi superfici, l’affresco rivive anche sulla grezza tela di iuta, dove superfici sbrecciate rivelano quasi inaspettatamente, agli occhi dell’osservatore, paesaggi architettonici ed edifici ora romanici, ora gotico veneziani, figure di altri tempi, come dame, paggi, cavalieri, ma anche iconografie sacre ed espliciti omaggi a personaggi della storia e della cultura locali, come San Bassiano, Ezzelino da Romano o Jacopo da Ponte. Va evidenziata la sapiente e misurata capacità dell’artista nell’esaltare ciò che nel tempo ha reso peculiare l’arte nella Terra delle Tre Venezie: l’inesauribile vena decorativa, di antiche ascendenze bizantine, che si manifesta, sulle sue tele, con l’introduzione della foglia d’oro e nella replicazione di alcuni elementi a stampo sull’intonaco; l’uso in alcune opere di tinte più tenui, pastello, che ricordano quelle usate dai grandi frescanti del Settecento veneziano; e infine il costante omaggio all’architettura della nostra terra, con la riproduzione delle cupole o del tetto a capanna tipicamente romanico delle chiese, i porticati dalle cornici marmoree e i sinuosi profili delle bifore veneziane. Il fruitore delle sue opere si trova quindi trasportato all’interno di atmosfere che riportano i segni delle epoche storiche trascorse ma in una dimensione quasi fuori dal tempo. Il richiamo ad ambientazioni metafisiche e la riflessione sullo scorrere del tempo sono palesi: le meridiane e gli orologi sugli edifici dipinti da Casarotto vogliono dunque invitarci a fare dell’arte un’occasione per evadere dalla quotidianità, recuperando ed attualizzando le nostre radici in un passato che viene magistralmente fatto rivivere. Sfida il tempo anche l’opera del maestro Nico Venzo, conosciuto a livello nazionale ed internazionale per le sue modellature in terracotta e sculture in bronzo. Nella plastica del Novecento, che ha visto l’alternarsi di poetiche spesso lontane dalla proposizione della figura umana, Venzo ne diventa invece, in coraggiosa e vincente controtendenza, indiscusso e del tutto originale interprete. Ciò che rende vera e pienamente credibile la sua proposta artistica è la vitalità che permea tutte le sue opere, siano esse in terracotta o in bronzo. Venzo si presenta come un umile ma potente demiurgo, che da elementi naturali, come terre, argille, metalli, dà forma ai corpi umani dei suoi soggetti e vi trasmette vita, sensualità, soprattutto dinamismo, grazie alla rara capacità di rappresentare donne, giovinetti, bambini nelle posizioni più disparate, ma sempre sinuose, eleganti ed estremamente naturali. E’ comunque la figura femminile il soggetto prediletto della plastica di Venzo. Essa viene esaltata come espressione di una bellezza pensosa, elegante nel suo ripiegarsi in se stessa o nel suo schiudere gli arti e le mani verso un altro soggetto rappresentato o in un gestuale dialogo con lo spettatore. La dinamicità della figura umana trova poi particolare espressione nelle ballerine, un’iconografia “classica” che egli personalmente interpreta conferendo alle danzatrici una grande flessuosità nei movimenti, una dolce malinconia nei volti reclinati e spesso ancora acerbi di ragazza e la vibrante energia del gesto coreutico. La vita ritorna poi ancora prepotentemente nelle sculture che hanno come tema la maternità: innamorato com’è della natura nelle sue multiformi espressioni, Nico Venzo ha sempre trovato questo soggetto a lui congeniale, l’occasione per interpretare spirito e amore che si incarnano in un essere nuovo, dialogante con la figura materna, spesso a lui abbarbicato, teso a respirarne il profumo, a confondersi con i capelli sciolti sulle spalle, ad intrecciarsi con braccia, mani, gambe che lo avvolgono, in un abbraccio silenzioso e allo stesso tempo eloquente. Infine, ma non ultima per importanza, dobbiamo soffermarci sulla grafica d’arte, con le pregevoli acqueforti e acquetinte di Gabriele Bordignon, che mai ringrazierò abbastanza per avermi fatto avvicinare, ormai parecchi anni fa, al mondo dell’incisione. Come ogni incisore, Bordignon ha dovuto prima conoscere a fondo, provare, in un certo senso “addomesticare” la tecnica incisoria – per quanto questo sia possibile, in quanto nel processo calcografico il caso è sempre presente, rendendo unico e imprevedibile ogni suo esito – per poi curvare, in particolare, le tecniche dell’acquaforte e dell’acquatinta alle sue esigenze espressive. Ne è maturato, nel corso degli anni, uno stile immediatamente riconoscibile, estremamente potente, espressivo, ma nel contempo raffinato ed elegante, felice sintesi di una grande abilità grafica e di una predilezione per campiture a volte nette, a volte, anche grazie alla fusione con il tratteggio, caratterizzate da graduali passaggi chiaroscurali. Con tale linguaggio Gabriele Bordignon, negli anni, ha affrontato una moltitudine di soggetti, passando dalla figura umana, sia maschile sia femminile, alle scene sacre, da scene di interni al paesaggio, prima quello naturale, poi, soprattutto negli ultimi anni, quello urbano ed industriale, sviluppando una particolare predilezione per la rappresentazione di luoghi abbandonati, impianti industriali dismessi, vedute cittadine sì, affollate, ma edifici imponenti, strade, ferrovie e cavalcavia che si intrecciano, scorrono e si perdono in lontananza. Sono questi paesaggi del nostro tempo ma anche spazi fuori da tempo, ideati e sospesi nel mondo dell’artista che li ha concepiti, solitari eppure carichi dell’umanità che li ha generati, permeati di una pensosa concentrazione, quella dell’incisore intento a plasmarli e a darvi una forma originale, fatta di segni più o meno pesanti, intrecci decisi e zone in cui si dispiegano tutti i toni del grigio e in cui il colore, della particolare consistenza pulviscolare data solo dall’uso della colofonia per l’acquatinta, insieme alla linea concorre a creare superfici e volumi. Dietro tutto ciò emergono la cura, la pazienza, la dedizione, la continua scommessa dell’incisore: stanno il mondo e il gioco di Gabriele, che decide di donare a noi, fruitori delle sue opere, il suo segno, con la misurata e silenziosa originalità che lo contraddistingue. Anita Guadagnin |