CENNI INTRODUTTIVI DI STORIA DELL’INCISIONE IN ITALIA

 

 

Per molto tempo si è creduto, sulla fede del Vasari, che l’incisione in rame abbia avuto origine ad opera dell’orafo fiorentino Maso Finiguerra nel 1460. L’aretino è stato però in seguito smentito da studiosi di questo settore dell’arte figurativa i quali, anche a non voler considerare taluni precedenti germanici, hanno dimostrato esservi un gruppo di opere da ritenere indubbiamente anteriori alla data suddetta.

Un fatto piuttosto è certo e cioè che l’incisione non è nata improvvisamente, quale fortuita scoperta, ma da lenta elaborazione di processi usati ad altri fini, soprattutto dagli orafi, i quali ricavavano da lastre d’argento niellate delle immagini su carta. Il Finiguerra dunque più che l’iniziatore di questa tecnica è da ritenersi colui che per primo le diede un valore d’arte, al punto che fu in seguito praticata da noti maestri quali Antonio Pollaiolo, Jacopo Francia, il Botticelli, il Lippi ed altri, con un’impronta nuova, che si staccava dal carattere primitivo della oreficeria e acquisiva fini propri. In tale spirito si inserisce quello che la critica considera giustamente il primo vero capolavoro dell’incisione italiana, il Combattimento di uomini nudi, eseguito dal Pollaiolo intorno al 1470, opera in cui si coglie immediato il senso del tocco a penna e dove ancora le linee vigorose di contorno delle forme anatomiche manifestano appieno ormai il distacco dagli orafi fiorentini. Sulla stessa scia si ritrova il Botticelli, anche se questi, mediante il suo più felice interprete, Baccio Baldini, oppone alla maniera larga pollaiolesca una maniera fine, fatta di segni lievi a matita o punta d’argento. È in ogni caso la libera espressività dell’artista, ideatore di sempre nuove tematiche, ad emergere, anche quando questi ricorre per l’esecuzione dei tratti sul metallo (e dapprima sul legno) alla mano di altra persona, di un esperto incisore. Così faceva del resto lo stesso Dürer per le sue matrici, intagliate in gran parte da Gerolamo Resch, al quale non lasciava mai la minima personale iniziativa nella trasportazione del disegno, considerandolo puramente un “tecnico”, niente più che un fedele esecutore della propria creatività

Non solo in Toscana però, ma anche nel Nord Italia l’incisione fu praticata fin dalla metà del XV secolo, soprattutto nel Veneto, dove trovò il suo grande rappresentante in Andrea Mantegna, il quale negli anni della piena maturità incise adottando linee vigorose e ben marcate per i contorni (alla maniera del Pollaiolo) e tagli fitti, tracciati parallelamente e diagonalmente, per le ombreggiature, cosicché le figure acquistavano effetto vibrante e forza scultorea. Fu un modo personalissimo, come originali erano le sue interpretazioni pittoriche, rimasto insuperato, anche se dalla sua scuola uscirono valenti incisori come un Andrea Zoan, che tradusse in rame con metallica fermezza vari disegni del maestro e lasciò alcune copie da stampe del Dürer, un Giovanni Antonio e un Giovanni Maria, tutti e tre da Brescia. Sempre nell’ambito del Veneto operano ancora tra la fine del 400 e gli inizi del 500 il vicentino Benedetto Montagna, il quale dopo una partenza mantegnesca ed una elaborazione düreriana si accostò alle forme di Giovanni Bellini, Jacopo de’ Barbari, il padovano Giulio Campagnola, cui spetta il merito di una nuova tecnica a punti, e Girolamo Moretto, il più veneziano per temperamento di tutto il gruppo, quindi, come il Montagna, particolarmente volto al carattere bellignano. Questo vivo accostamento ai grandi maestri della pittura dai toni luminosi e plastici fece sì che l’incisione praticata nella città lagunare assumesse, più che altrove, effetti coloristici e giungesse ad esiti assai vicini al rilievo pittorico. Ciò divenne esigenza ancora più pressante quando taluni incisori iniziarono a riprodurre calcograficamente opere di sommi pittori, per una loro forse maggiore fruizione, per una diffusione dell’immagine d’arte a più vasto raggio. Ne costituisce significativo esempio tanta parte della produzione di Giulio e Domenico Campagnola e più ancora di Marcantonio Raimondi, anche se questi fu a Venezia solo per breve tempo e le sue incisioni sono più legate alle opere di Raffaello che a quelle dei maestri veneziani.

Nella trasposizione tuttavia la fedeltà delle opere originali non sempre trovò pieno rispetto; sia a Venezia come in ogni altra parte del Paese non pochi incisori si distinsero proprio per una maggior libertà interpretativa dei lavori altrui. Così ad esempio Giacomo Caraglio, fine ed elegante acquafortista della scuola romana, che trascrisse con tocchi personali grandi pagine non solo di Raffaello ma anche del Tiziano.

Non esaurì l’interesse per l’incisione il Rinascimento, pur se le molte calcografie eseguite e le diverse tecniche sperimentate potevano far credere ormai finito l’amore per questo tipo di attività artistica; anzi, il 600 trovò ancora tanto numerosi assertori da poter dire che non vi sia stato grande maestro della pittura di questa nuova epoca che non abbia posto in atto, almeno per qualche opera, l’arte del bulino: dal Caravaggio al Guercino, a Guido Reni, a Salvator Rosa, che con fare personalissimo, contraddistinto da tratti ora lievi come di penna ed ora forti come impressi da punta d’acciaio, eseguì all’acquaforte una novantina circa di rami. E accanto a questi, essenzialmente pittori i nomi ancora di tanti e tanti altri che hanno praticato (facendo tesoro ora di una e ora dell’altra scaltrezza tecnica precedentemente escogitate) in tutto l’arco della loro attività artistica esclusivamente l’incisione: dal fiorentino Stefano della Bella al Testa, al Lolli, ad Andrea ed Elisabetta Sirani, a Marco Boschini e Giuseppe Diamantini, al veronese Giulio Carpioni, ad Andrea Podestà, che incise talvolta inventando e altre volte traducendo all’acquaforte Tiziano, ripreso più tardi anche da Valentino Le Febre. I pittori veneziani rappresentavano dunque sempre un punto di riferimento preciso, quasi obbligatorio, nell’incisione riproduttiva; che non era poi imitazione o virtuosismo di mestiere, bensì un modo “di procedere coerentemente per via di equivalenze”. Numerosi furono pertanto anche in questo periodo nella Dominante coloro i quali si dedicarono a quest’arte, anzi, vi fu chi sulle sponde della laguna prese fissa dimora per poter meglio operare in tale campo. È il caso dei fratelli Sadeler, la cui produzione grafica e stata copiosa da raggiungere almeno le 2000 stampe; del Fialetti, autore di numerose opere di traduzione dal Tintoretto, dal Pordenone, dal Polidoro; di Augusto Caracci, che a Venezia incise la grande Crocefissione della scuola di San Rocco del Tintoretto, riscuotendo le lodi del grande maestro. Molti dunque gli incisori veneziani di adozione, ma non meno numerosi quelli veramente nati in questa città, quindi formati fin dagli inizi alla sua tradizione pittorica, alla sua civiltà. Fra i tanti, emersero per singolare personalità e ricchezze d’opere: Marco Meschini, Guglielmo Piccini e più ancora suo fratello Giacomo, che nel 1658 riportò in alcuni fogli gli affreschi di Giorgine e di Tiziano sulle due facciate del fondaco dei tedeschi ed altre opere ancora dello stesso Vecellio; e con essi Isabella, figlia di Giacomo, la quale, appresa dal padre ancor giovane la tecnica dell’incisione, continuò ad esercitarla anche dopo essersi fatta monaca nel convento di Santa Croce. Anzi, proprio nella quiete di questo luogo impresse frontespizi, antiporte, illustrazioni, simboli e motivi decorativi di numerosi libri di pietà e immagini di venerazione con l’effigie di Santi, incrementando così la diffusione della figurazione grafica devozionale.

Il momento magico tuttavia dell’acquaforte italiana si registra con gli artisti del 700 ed in particolare modo con i veneziani i quali, pur fedeli alle aspirazioni del secolo precedente, manifestarono una più libera coscienza nel cogliere atmosfere e luci. Se ne hanno le prime avvisaglie col bellunese Luca Carlevaris che, vissuto a cavallo dei due secoli, incise “con forza drammatica” una serie di ben centoquattro acqueforti di solido impianto prospettico, luminose animate di figurine e imbarcazioni. Con queste immagini, denominate nel loro insieme Fabbriche e vedute di Venezia, Carlevaris si staccava dalla consuetudine del paesaggio ideale o di fantasia e dava avvio alla veduta intesa come rappresentazione obiettiva e documentaria. Costituì infatti tale aspetto l’elemento tipico e dominante di tutta l’epoca successiva, il nuovo modo di concepire l’incisione, rivolta non soltanto a fini estetici e decorativi, ma a testimoniare le bellezze artistiche, la realtà storica del passato.

A medesimi intenti non molto più tardi mirò pure, ed in maniera ancor più accentuata, Giovanni Battista Piranesi: Dopo alcune esperienze iniziali nella natia Venezia con lo zio Matteo Lucchesi, con l’architetto Scalfarotto e con l’incisore Carlo Zucchi, si trasferì a Roma, dove fu letteralmente avvinto dalla grandiosità e dal fascino dei resti della classicità dell’urbe. Di questi egli colse spirito e caratteri, annottò lo stato reale riportando quindi nelle sue incisioni ogni minimo particolare che potesse rivestire un qualche significato. Ebbero così inizio le prime tavole con le vedute di Roma, immagini che, data l’inesauribile fonte d’ispirazione, continuarono oltre ogni previsione dello stesso Piranesi, e cioè fino a raggiungere in circa 30 anni di lavoro il cospicuo numero di 137 raffigurazioni. In esse, accanto all’ormai consolidato carattere di fedeltà alla concretezza dei monumenti riprodotti, si colgono tonalità chiaroscurali tanto esaltate da far apparire talora la scena stessa quasi trasfigurata. Abilità che l’artista che, conoscendo a fondo per tutta una remota preparazione gli effetti prospettici dell’impianto architettonico, è riuscito a cimentarsi con straordinaria bravura in rilievi dai toni di terso chiarore e nero profondo.

Connotazioni diverse appaiono invece nelle opere grafiche di Giovanni Battista Tiepolo, il più geniale certamente di questo secolo, opere caratterizzate da invenzioni fantastiche in cui si ritrovano le cose più diverse in un rapporto che sfugge alla logica. Il Tiepolo nell’incidere ebbe viva l’istanza che lo guidava allorché dipingeva: rinnovare i fasti del 500 con apoteosi di luce, di magnificenza, di grandezza. Nelle poche acqueforti eseguite vi riuscì appieno; valendosi di un sol ferro e con segni tenui e brevi conferì alle sue immagini una così straordinaria e una tale luminosità da farle apparire idealizzate, nate di getto, quasi dall’arbitrio della punta. Invano i figli Giandomenico en Lorenzo cercarono di accostarsi alla sua genialità, essi dovettero limitarsi alla riproduzione all’acquaforte di composizioni pittoriche del padre (Giandomenico anche di dipinti propri), eseguite ad ogni buon conto con abilità, a larghe masse e fortemente chiaroscurate, tali da rendere perfettamente il carattere degli affreschi.

I monumenti, le chiese, le prospettive urbane costituirono un tema caro anche al Canaletto il quale, sulle orme del suo grande maestro, il Carlevaris, continuò con felice sorte la tradizione del vedutismo veneto. Oggetto delle sue particolari attenzioni furono sovente il Brenta, Venezia e la sua laguna, animate da macchiette (alla maniera un po’ di Callot) che si muovono in un’atmosfera calma e limpida. Sono gli stessi caratteri dei dipinti ad emergere, soltanto ottenuti lì tramite luminosità cromatiche intense e vibranti, nelle acqueforti invece resi mediante un gioco di linee parallele che l’artista incise con punte di varia grandezza. Gli fu “collega” Michele Marieschi, ugualmente attratto dalle grandi, maestose, inquadrature di Venezia, e lo imitò, soprattutto nella tecnica dei piccoli formati, il nipote Bernardo Bellotto. A questi, sempre nell’ambito del 700 veneziano, vanno aggiunti i nomi di Gianbattista Brustolon che “fece uso notevole del bulino e di ripetute morsure, spesso avvicinandosi ad effetti di acquatinta, tipici d’altronde delle tecniche più evolute nella incisione veneta sulla fine del secolo” Alessandro Longhi, i cui meriti di incisore”breve, arioso, immediato anche quando s’intreccia a creare un’ombra: un’ombra brillante che rende, accostati alla sua trama sottile, più luminosi i bianchi”, gli furono riconosciuti solo di recente; Gaetano Zompini che con la serie de Le Arti “(affonda la sua rappresentazione in un realismo spietato e senza indulgenze verso la tradizione grafica edulcorata e mistificatamene veneziana ed europea”. Ed ancora il Falconi, il Pitteri, interprete del Piazzetta, il Bortolazzi che riprodusse ad acquaforte i disegni del Guecino e, adottando più tardi l’uso del granito, riprese “con effetti di delicata morbidezza composizioni del Reynold, del Lawrence, della Kauffmann”.La sua preparazione tecnica s’era infatti compiuta (come del resto per il Bradi, il Cappellan, il Baratti, il Volpato) sotto l’abilissima guida di Giuseppe Wagner, un oriundo tedesco che stabilitosi a Venezia vi aveva aperto con notevole fortuna una bottega Calcografica: E’ merito davvero, almeno per buona parte, di stampatori ed editori se l’arte incisoria nel XVIII secolo poté rifiorire così grandemente e lasciare tanta ricchezza di capolavori; non poche volte furono proprio quest’ultimi ad appoggiare l’iniziativa di raccolte illustrative su argomento specifico, a tema libero o a corredo di capolavori letterari e religiosi. Basteranno a tale proposito i nomi di Abrizzi, Pasquali, Zatta, cui vanno aggiunti ancora quelli dei rivenditori quali il Viero, il Furlanetto, il Remondini di Bassano ed il già citato Wagner. E’ per la loro iniziativa, intraprendenza e sovente per le loro stesse sovvenzioni che l’incisione poté avere tanto incremento e divulgazione; e non soltanto nel circoscritto limite del territorio veneziano, ma pure all’estero, che essa costituiva (quando almeno riproduceva una chiesa, un monumento un angolo di città) un’ottima immagine, a ragionevole prezzo,da portare come ricordo.

 Paolo Tieto